Hermine, Romania

Il blu dei suoi occhi si è trasformato in un grigio triste...

Di fronte all’impotenza di una presenza che non può raggiungere la solitudine dell’amico, Hermine riscopre il potere della preghiera perché “Lui può fare tutto per lei”.

“L’essenziale è invisibile agli occhi”, come la profondità dell’amore che l’ha unita al marito, che non avevo sospettato. Non l’ho mai visto, non l’ho mai incontrato, non ne ho mai sentito parlare (le sue parole, sempre molto modeste, possono aver suggerito la sua presenza senza che io ci facessi caso). Ma quando se ne andò, il vuoto divenne brutalmente palpabile. Lui, che non si vedeva nella foto, era chiaramente visibile sul negativo. E il giorno in cui raggiunse la patria eterna, crollò. Una piccola, fragile pianta, esposta a tutti i venti, scossa, smarrita. Esiliata. E questo esilio, così difficile da capire, la fa impazzire. Lei è solo l’ombra di se stessa, ma se vi degnate di guardarla con più acutezza, sarete commossi perché è stranamente più viva, più umana.
D’estate, nella sua stretta cucina inondata di luce, ci sistemava intorno al tavolo di legno dipinto, ognuno su uno sgabello coperto da un cuscino con disegni strani e colori sbiaditi (affascinante), poi tirava fuori dalla credenza un barattolo di frutta sciroppata che ci serviva con quell’entusiasmo che è così caratteristico di lei. Poi si è seduta, leggermente indietro, piegata in avanti, le mani intrecciate nell’incavo del grembiule, i capelli arruffati come sempre. Con la sua vocina veloce, a volte inciampando in una sillaba, impigliandosi in una relazione o inciampando tra gli omonimi, chiedeva poi delle nostre notizie, punteggiando i nostri scambi con qualche “bine … bine …”, “foarte bine”. Tutto intorno a lei c’era un indefinibile profumo di essenziale, come un profumo proveniente dalle cime sprigionato da questa magnifica semplicità, questa grande calma che la abita. Su di lei, un maglione con motivi di acqua rosa e verde, anni Ottanta, ruvido, leggermente traforato. Un grembiule con motivi ingenui e floreali, indossato notevolmente storto. I muli usurati fino alla corda che ricopre calze di lana altrettanto vecchie, fanno un buon abbinamento. E in questa cucina, un po’ disordinata, dove una moltitudine di provviste, vasetti e utensili si mescolano armoniosamente, questa fragile vecchietta mi sembra alta e bella. Forse è il bagliore dell’eternità che risplende nel profondo dei suoi occhi azzurri, quando invariabilmente recitiamo qualche “Bucură-te Marie”, prima di lasciarci.
La luce di febbraio che ora brilla attraverso la finestra ha perso il suo candore. Il sole splende in un cielo limpido, l’aria è leggera, ma nulla riesce ad offuscare l’ombra che oscura il vuoto dei suoi occhi. Seduta, prostrata, dovrei dire, rannicchiata, emaciata, con gli occhi persi nel vuoto. Questo sguardo un tempo blu, limpido e franco, ora grigio come un giorno nebbioso in cui la pioggia pesante mescola cielo e terra, offuscata, smarrita, lontana e triste. Una tristezza così vivida, così profonda, che ti fa sprofondare, solo guardandola, in un precipizio senza fondo. Lo guardo e mi fa male. Fa così male. Ma non è niente in confronto al dolore che la travolge ora. Seduti uno di fronte all’altro, io e Mollie ci guardiamo impotenti: è così lontana, seduta tra noi, vicino a quello stesso tavolo di legno dipinto, ma smarrita, vagando in un altrove inaccessibile. Terribile impotenza nel vedere quella un tempo così familiare, ora straniera, ancora amata ma stranamente impenetrabile a qualsiasi consolazione. Murato in un dolore abissale. Le maniche del suo maglione di lana, ora sovradimensionate, strette ai polsi da piccoli elastici, fanno risaltare solo due mani ansiose e scarne. Li stringe insieme, li schiaccia su un angolo del tavolo o li lascia cadere di nuovo nell’incavo del suo grembiule. Le spalle si abbassano, la schiena si affloscia, persino il viso sembra piegarsi in un’angoscia senza fine. Soprattutto i suoi occhi, quando li immerge nei nostri, sembrano volersi aggrappare disperatamente da qualche parte per non affondare. Ma lei è sola. Potrei tenerle la mano, ma non riesco a raggiungerla. Dove si trova, è da sola. Le parole che ci raggiungono sono poche e lontane tra loro, e quelle che ci raggiungono riecheggiano nel profondo di un abisso solitario. Ripete. Macchinalmente. Risposte. Anche dal punto di vista meccanico. Si alza. Si siede immediatamente. Parte e ritorna immediatamente. Rimane in silenzio, per molto tempo. Sussurri. Un reclamo. Salta. Ha paura. Le parliamo dolcemente. Recitiamo insieme una preghiera. È inutile. E’ lontana. No, non invano. Può fare qualsiasi cosa per lei. Lui da solo. Anche zia Eleonora ci ha provato. Lei lo ha invitato, gli ha mandato dei piccoli pacchi. Un po’ di riso. Una frittella al formaggio. “Deve mangiare”. Si preoccupa e vuole fare la cosa giusta ma, invariabilmente, i suoi inviti scatenano il panico: “Nu știu… nu știu… nu știu… nu știu…”, scrive a se stessa. Non può venire. Lei non lo sa. Lei non lo sa più. E’ terrorizzata. Ansiosa, crocifissa.